Libero professionista o… professionista Libero?

Il mercato del lavoro nella società liquida.

Qualche giorno fa ho letto un articolo in cui ho scoperto che tra i giovani non ci si chiede più “che lavoro fai?” o “di cosa ti occupi?”, ma ci si domanda: “qual’è la tua barra?”. Per barra si intende lo “slash” sulla tastiera, come segno separatore di due o più cose alternative e, nel caso specifico, sta a significare che ormai i giovani fanno almeno due/tre lavori contemporaneamente. 

Si tratta di un cambiamento epocale dovuto all’evoluzione del mercato del lavoro che sta ormai ufficializzando la fine del posto fisso, rimpiazzato da lavori precari e mutevoli rapidamente nel tempo. Ormai si calcola che un giovane che si affacci oggi al mondo del lavoro cambierà, nell’arco della sua vita lavorativa attiva, fino a 15 tipi diversi di lavoro.

Solo 20 anni fa una cosa simile era inimmaginabile!

Eppure per i ragazzi di oggi è assoluta normalità. Spesso siamo noi quaranta-cinquantenni che ci preoccupiamo più dei nostri figli millennials che, invece, a questo sono preparati e abituati. Si va verso quella flessibilità che nei paesi del Nord-Europa è ormai consolidata e invidiata dai paesi più mediterranei.

Ma si va anche verso il modello lavorativo del libero professionista, eterno precario, che ogni giorno lotta sul campo per procacciarsi il lavoro che gli garantirà il fatturato di cui ha bisogno nel corso dell’anno.

Lo slogan secondo cui “il lavoro non si cerca ma si crea” non è mai stato più attuale. Ormai mandare curriculum vitae, via mail a centinaia di aziende è assolutamente inutile, frustrante e dispendioso. Nel 90% dei casi non si riceve alcuna risposta e, quando la si riceve, è di cortesia…. Se si arriva al colloquio di selezione, si assiste ad una vera e propria messa in scena di un gioco delle parti che vede il datore di lavoro fare domande, che lui ritiene furbe, a candidati scaltri e preparati a dare le risposte più gradite, spesso frutto di studi e strategie approfondite. Il risultato? un’assunzione in prova che permetterà di valutare realmente le capacità del candidato e la sua compatibilità con il resto dell’azienda.

Fermo restando che, alla prima flessione del lavoro, si ridiscuterà la posizione, il compenso, gli incentivi, le mansioni, ecc….

Ma cosa vuol dire “crearsi un lavoro”?

Innanzitutto significa acquisire delle competenze che possano avera appeal sul mercato, ma non all’epoca in cui si sceglie l’università…. bensì quando ci si laurea. Quindi master, specializzazioni, corsi post-laurea vanno indirizzati verso una formazione specifica, possibilmente specialistica, non largamente diffusa tra gli altri colleghi.

In una parola occorre avere competenze approfondite in una nicchia di mercato molto ristretta, in modo da distinguersi dalla massa dei competitor, per affrontare e aggredire un mercato sempre più ridotto e competitivo, magari costruendone uno nuovo, in modo da poter essere il primo e quindi, per definizione, il migliore!

L’obiezione più comune a questo punto è: ma se il mercato è di nicchia, è vero che ho meno competitor ma ho anche meno lavoro!

La risposta è nel web! 

Se la nicchia, localmente, genera meno opportunità di lavoro, affrontata in una dimensione digitale, diventa molto molto ampia e quindi ricca di opportunità a “portata di mouse”!

I nostri interlocutori diventano milioni che, attraverso i loro profili e le loro pagine virtuali, ci seguono, ci giudicano, ci valutano e alla fine …… ci scelgono!

Se poi si lavora in “inglese” la platea diventa praticamente globale.

Ma focalizzarsi, specializzarsi in qualcosa di molto particolare non è di tutte le professioni. Ce ne sono alcune che hanno come vocazione l’opposto: cioè affrontare i temi in un approccio d’insieme, mantenendo la visione della globalità del processo, evitando di scendere troppo nella profondità del particolare dimenticando l’intero, il tutto.

La professione di architetto è senz’altro una di queste. Mi piace paragonarla a quella del regista cinematografico che, per realizzare il film deve essere competente di fotografia, musica, scenografia, storia, sceneggiatura, illuminotecnica, tecnica del suono, ecc…. Tuttavia si circonda di professionisti per ciascuna di queste discipline, scegliendoli tra i migliori, e li dirige in modo da avere il miglior risultato possibile, senza mai perdere la visione d’insieme e l’obiettivo globale della storia che vuole raccontare. 

Purtroppo negli ultimi decenni anche la professione di architetto ha subito il processo che porta a specializzarsi in alcuni dei tantissimi settori in cui questa disciplina consente di cimentarsi. Questo ha sempre suscitato un vasto dibattito, che riaffiora spesso, sull’opportunità di scegliere la strada della specializzazione e acquisire competenze sempre più di settore, per avere maggiori opportunità di lavoro, o mantenere l’approccio “generalista” scontando però il mancato accesso ad occasioni di selezione per affidamento di incarichi.

A titolo di esempio si può citare la disciplina del tecnico forense (consulente del tribunale o di parte…) o quella dell’esperto di efficienza energetica, o di sistemi costruttivi innovativi, o ancora della progettazione sostenibile e dell’eco-design….

Personalmente ritengo che la natura dell’architetto non sia quella dello specialista altrimenti, banalmente, avrebbe scelto il percorso di studi dell’ingegnere. All’architetto piace mantenere la visione d’insieme e, anzi, spesso ama i salti di campo tra discipline diverse e le relative contaminazioni reciproche.

A mio parere, in generale, quando l’architetto si specializza, in qualche modo compie uno sforzo di necessità ma, in cuor suo, non è contento….

Ovviamente posso sbagliarmi ma sono abbastanza convinto di quello che ho appena scritto.

Tuttavia esiste una possibile strada per conciliare la vocazione all’approccio d’insieme e la necessità di specializzarsi per accedere meglio al mercato del lavoro, sempre più competitivo e segmentato.

Vedere la specializzazione come un modo per avere una sorta di servizi-grimaldello con cui approcciare le opportunità di lavoro, per poi offrire anche gli altri servizi ad ampio spettro, che compongono il vasto bagaglio di cui è dotato l’architetto.

Mi spiego con un esempio: un esperto di feng-shui potrà essere ricercato dalla committenza e avere meno competitor sul mercato e, una volta, stabilito il rapporto di lavoro attraverso un servizio di consulenza, potrà proporre anche la progettazione, la direzione lavori, il progetto d’arredo, i calcoli termotecnici, ecc…..

L’esempio può essere ripetuto per una vasta casistica ma lascio a voi lo sforzo d’immaginazione.

Una cosa è certa: quanto dicevo nelle prime righe di questo post, e cioè che oggi il mondo cambia velocemente e si deve entrare nell’ottica di cambiare molte volte le modalità in cui si lavora… anche senza cambiare letteralmente lavoro, vale anche per la professione di architetto!

Anche solo vent’anni fa un architetto cominciava e finiva la sua vita lavorativa facendo, più o meno, le stesse cose… esercitando allo stesso modo, progettando con criteri consolidati, seguendo procedure standardizzate da anni, rapportandosi con la committenza secondo tariffe e condizioni riconosciute e condivise. 

Da quando ho iniziato ad esercitare io la professione, posso dire di aver cambiato ciclicamente, più o meno con periodicità quinquennale e, ultimamente, con l’avvento dell’informatizzazione dei processi amministrativi, l’obbligo di aggiornamento è costante! Direi che la maggior parte del tempo viene impiegato per decifrare norme e regolamenti, imparare procedure, risolvere problematiche, dirimere contenziosi… il tutto a scapito del tempo dedicato alla vera attività per cui saremmo vocati e deputati: progettare!

L’unica risposta ai cambiamenti frequenti, spesso repentini, del mondo professionale, è il continuo aggiornamento in modo da avere gli strumenti non solo per seguirlo ma addirittura per precederlo, il cambiamento!

In questo modo non sarà più vissuto come un problema ma come opportunità, perchè si potrà godere di quel vantaggio competitivo che consentirà di arrivare prima degli altri, che poi seguiranno e verranno ad erodere fette di mercato. Ma a quel punto si dovrà essere pronti per una nuova modalità, un nuovo servizio, un nuovo progetto… di vita professionale.

Una caratteristica che oggi è a mio avviso indispensabile è la flessibilità operativa. Lo studio professionale ideale è quello che io definisco “a geometria variabile”. Cioè quella modalità che unisce e integra il numero di addetti e la variabilità dei costi. Mi spiego meglio.

I grandi studi di progettazione sono composti da tanti professionisti, con competenze e sensibilità differenziate, utili in un approccio multidisciplinare che consente di lavorare in vari paesi del mondo, a progetti di varia complessità.

Questo però comporta la necessità di una notevole quantità di incarichi, con un flusso costante di compensi professionali, per poter tenere in piedi una macchina basata essenzialmente sui costi fissi. Il che, vista la variabilità del mercato, che mi piace definire “a fisarmonica”, espone i titolari a forti rischi d’impresa e repentine “ristrutturazioni” di organico.

Al contrario, gli studi meno strutturati, con un numero ridotto di addetti, per non parlare della configurazione più diffusa che vede il titolare e uno/due collaboratori, magari tirocinanti, non possono permettersi di accedere a incarichi di una certa rilevanza e, quando si trovano nella possibilità di acquisirne uno, hanno inevitabili difficoltà a portarlo a termine.

Ergo, la soluzione ottimale è avere una struttura agile e snella, composta da un numero base di addetti, dimensionato sull’andamento standard del lavoro, ma disporre al contempo di una fitta e ricca rete di partner e collaboratori in outsourcing, da coinvolgere nei momenti in cui si rende necessario.

Ovviamente i rapporti interprofessionali devono essere costruiti nel tempo, selezionando con cura i soggetti, affiatandosi reciprocamente nei processi lavorativi, stabilendo modalità compensi e procedure operative il più possibile standardizzate, in modo da essere rapidi ed efficienti nel processo di aggregazione/disaggregazione, in assetti e configurazioni ogni volta diverse, ed essere idonei all’acquisizione e svolgimento dell’incarico.

In questo modo i costi di struttura diventano variabili, come i flussi di cassa da compensi e quindi è possibile allineare le entrate con le uscite, riducendo molto il rischio d’impresa tipico di un mercato fortemente variabile.

Concludo queste riflessioni sul dilemma tra libero professionista o professionista libero con l’auspicio che ognuno di noi, professionista o meno, possa essere sicuramente libero! 

Libero da condizionamenti, da problemi, da “padroni”… libero di scegliere, di decidere e, ovviamente, di lasciare un commento!

Alla prossima e… buon lavoro!

 

e.r.g.o.

 

 

p.s.: e.r.g.o. è l’acronimo del mio nuovo essere digitale e significa egidio raimondi green optimizer… quello che faccio lo spiego nelle sezioni del blog e nei prossimi post!

Se non vuoi aspettare e hai qualcosa di urgente da chiedermi non esitare a contattarmi scrivendomi a egidio@egidioraimondi.com oppure lascia un commento.

 

 

Leave a Reply