FreeSpace?

Alla Biennale di Architettura di Venezia ci si chiede se lo spazio può essere libero.

Il Titolo parla di spazio libero ma molti padiglioni hanno interpretato, descritto, denunciato tutti quei Muri, materiali e immateriali, che rendono lo spazio prigioniero!

Non ci sono solo i muri in cemento armato che, dopo averne abbattuti alcuni di forte valore simbolico negli ultimi anni, si stanno erigendo nel mondo, per dividere e confinare territori, persone, culture, identità… primo fra tutti quello di cui il presidente USA Donald Trump va tanto orgoglioso.

Si parla anche di muri immateriali, come ostacoli al libero accesso alle fonti di energia, alla risorsa acqua, al suolo fertile ecc…

Ma si parla anche di enclaves, di muri cioè che recintano, intercludono uno spazio, privandolo della libertà di fruizione o, al contrario rendendolo libero e salvo da conflitti e guerre, come nel caso del Medio Oriente.

Ci sono poi i muri culturali, economici, religiosi, sociali… che impediscono l’incontro e l’integrazione tra persone e popoli…

Alla stessa stregua sono trattati come muri alcuni confini tra luoghi, resi sempre meno permeabili in ragione della paura a confrontarsi, in nome di chissà quale ricchezza da proteggere dagli “attacchi” del diverso… per poi atrofizzarsi e dissolversi proprio per mancanza di linfa vitale dall’esterno, di osmosi con i luoghi adiacenti, di flussi di nutrimento prezioso.

Le declinazioni e i punti di vista sono davvero tanti e interessanti, cercherò di sintetizzarne qualcuno, tra quelli che mi hanno colpito di più, riferendomi ai rispettivi padiglioni con gli allestimenti più riusciti.

Germania. Una vera autorità in fatto di muri, passata alla storia due volte, con la tragica costruzione del muro che divideva in due la Berlino del Dopoguerra e con la sua demolizione nel 1989 e la conseguente riunificazione delle due Germanie.

L’allestimento è fatto con dei setti, che solo dopo qualche minuto riportano alla mente i pannelli modulari prefabbricati in cemento ermato con cui era costruito il muri di Berlino, disposti in modo sfalsato affinchè ci si possa girare intorno e passare attraverso, per guardare tutti i progetti di ricostruzione post-bellica, rigenerazione post-industriale, infrastrutturazione, rinnovamento della città in quanto organismo vivente. Il muro divisivo e negativo viene smaterializzato e reso supporto espositivo dei muri positivi, intesi come costruzioni di edifici e di futuro.

In due spazi adiacenti alla foresta di pezzi di muro appena descritta, una serie di 5 monitor reiterata all’infinito da pareti di specchio, ospita in loop testimonianze della gente che è arrivata in Germania da tutto il pianeta, con le sue culture, tradizioni, religioni, storie … e si è integrata mantenendo la propria identità. Praticamente la negazione sociale del muro che, nonostante tutto, non è riuscito ad impedire che si creasse quel mix di ricchezza socio-culturale. La sconfitta del muro ancor prima che fosse abbattuto! La prova della sua inutilità. Mi sono venute in mente le parole di Lucio Battisti: come può uno scoglio arginare il mare? e, parafrasandole, come può un muro arginare l’umanità?

Stati Uniti.  La migliore installazione di tutta la Biennale. Un enorme videowall su cui vanno in scena con una regia magistrale i “muri” del mondo, intesi oltre che come manufatti edilizi, anche come difficoltà di accesso alle fonti di energia, sia per le caratteristiche orografiche del suolo che per i postumi delle calamità naturali come urgani e terremoti.

In un valzer di zoomate e campi lunghi, con suoni e musiche sapientemente scelti si viaggia per tutto il pianeta e, ogni volta che ci si sofferma su un sito, vengono sciorinati dati e statistiche che materializzano il  “muro” di turno. Le immagini catturano l’osservatore come un magnete e lo portano a riflettere su tante situazioni poco note ai più ma che, spesso, raggiungono livelli di drammaticità inaspettati.

Ovviamente non può mancare il vergognoso muro che Trump ha cominciato a far costruire alla frontiera con il Messico!

Francia. I Francesi, che per abbattere muri e barriere hanno dato origine a molte rivoluzioni, allestiscono il loro padiglione come un gran bazaar in cui si “vendono” gli oggetti simbolo dell’identità dei popoli.  

Il messaggio sembra essere che il commercio e la libera circolazione delle merci aiuta anche la libera circolazione delle persone, delle culture e delle identità. 

Nota polemica e sarcastica il fatto che sugli scaffali del bazaar si trovano in vendita anche progetti e quindi l’architettura che si fa standard e prodotto di massa, slegato dal contesto in cui andrà ad essere installata!

Numeri uno nei processi partecipati e nella gestione dell’approccio consapevole alla costruzione, trasformazione e gestione della cosa pubblica, intesa come bene comune, hanno allestito una bacheca su cui il visitatore può attaccare un foglietto di segnalazione, composto da una scheda sintetica, su un edificio abbandonato che vorrebbe riqualificare. Confesso di aver attaccato ben tre schede sull’ex convento di Sant’Orsola a Firenze!

Danimarca. I danesi puntano tutto sull’aspetto sociale e sul valore della libertà dei singoli, con le loro identità individuali, espresse in modo che non venga compromessa l’identità del luogo in cui si incontrano e vivono. Particolare attenzione è rivolta alla città, luogo in cui ormai vive più del 50% della popolazione mondiale e che deve gestire problematiche difficilissime, come i flussi migratori e i cambiamenti climatici, evitando i possibili conflitti tra portatori di istanze diverse e contrastanti.

Molta comunicazione testuale, poche immagini e il tentativo di coinvolgere il visitatore con fogli da prendere contenenti messaggi da portare a casa.

Spagna e Belgio. Li metto insieme perchè sono simili puntando tutto sulla dialettica tra oggetti quotidiani il cui uso dipende dai singoli cittadini (sedie, utensili, ecc…) e pezzi di città, quartieri progettati, esistenti o oggetto di operazioni di recupero, il cui uso dipende dai progettisit e dalle scelte dell’amministrazione e della politica. Mettere i vari piani e le varie scale in relazione reciproca mira a dimostrare che ogni singolo pezzo è parte di un tutto, complesso, strutturato, organico, vivente…

Si potrebbero passare ore ad esaminare tutti i disegni, i grafici, i testi riportati sulle pareti bianche e sul pavimento, su cui campeggiano parole chiave significative, ma basta cogliere il messaggio che, per quanto mi riguarda, è molto chiaro e assolutamente condivisibile.

Israele. La sua storia è fatta da un coacervo di muri. Muri che dividono lungo i confini contesi e muri che proteggono parti di popolazione in enclaves sicure.

Una grafica efficace di proiezioni a tratto nero su pareti bianche rende benissimo l’idea e suscita emozioni.

A corredo i plastici del concorso per il centro delle tre grandi religioni monoteiste, messi molto vicini tra loro, in cui si possono cogliere i diversi approcci dei progettisti in funzione della loro visione culturale.

Svizzera. Forse il più riuscito (poi ci diranno che è stato premiato come il migliore) perche pone l’uomo (il visitatore) di fronte alla scala dimensionale. Si tratta di una sequenza di spazi domestici in cui gli elementi, dal pavimento alla porta, dalla finestra al mobile della cucina, sono di dimensioni diverse. In questo modo il visitatore si trova di volta in volta ad essere un gigante, un adulto o un bambino, dovendo cambiare il suo rapporto con l’ambiente intorno a lui, in una sorta di viaggio spazio-temporale, ottenuto con un espediente frutto di rara intelligenza e senza effetti speciali ma, semplicemente, mettendo il corpo umano in relazione con l’intorno. Chapeau!

Tutto questo era nell’area dei Giardini poi, come di consueto, c’era tutto l’arsenale che ho percorso rapidamente (le corderie restano uno degli spazi espositivi più affascinanti che abbia mai visto) per andare al Padiglione Italia.

Tutto dedicato alle aree interne, tema che mi aveva attratto molto all’inizio, ma che viene declinato in forma di marketing territoriale e degli studi dei progettisti impegnanti in progetti di valorizzazione. Non si pone abbastanza l’accento sulle origini dell’attenzione a queste aree in particolare, sulla storia e sulle scelte sbagliate che le hanno portate allo spopolamento e al depauperamento  economico, sociale e ambientale.

Aggiungo che spesso si vedono progetti troppo basati sulla costruzione di volumetrie, occupazione di suolo, impatto su aree delicate, piuttosto che operazioni delicate di ricucitura, di riscoperta di senso, di recupero di identità cancellate partendo da tracce superstiti. Sono progetti tesi più a mostrare la bravura e la capacità di chi se li è aggiudicati arrivando da fuori, che ad innescare veri processi virtuosi sui territori, secondo logiche di cambiamento del paradigma diffuse in modo capillare nel tessuto sociale, imprenditoriale, professionale, economico, politico…

Vado via, allora di chiusura dei cancelli, con una certa sfiducia per come andrà a finire, certo di annotare l’ennesima occasione perduta per un paese che ha la fortuna e il merito di avere un territorio tra i più belli al mondo ma che arranca, tra emergenze e interessi particolari, in totale assenza di una visione di largo respiro e di una strategia di lungo periodo.

Mi piacerebbe avere dei commenti da chi avesse visitato la Biennale per avere un confronto sulle emozioni provate e sull’impatto ricevuto.

Oppure…  ne riparliamo tra due anni!

p.s.: e.r.g.o. è l’acronimo del mio nuovo essere digitale e significa egidio raimondi green optimizer… quello che faccio lo spiego nelle sezioni del blog e nei prossimi post!

Se non vuoi aspettare e hai qualcosa di urgente di cui chiedermi non esitare a contattarmi scrivendomi a egidio@egidioraimondi.com oppure lascia un commento qui sotto.

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